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OLIVETI, OLIVE ed OLIO
breve storia
(a cura di alberto longobardi)
La coltivazione dell'olivo e la produzione di olio nel Lazio e nell'Etruria erano senz'altro presenti tra VII e VI secolo a. C., come ha attestato il ritrovamento di noccioli di olive in contesti archeologici sicuramente databili in questo periodo.
Le olive, grazie al loro alto contenuto di grassi vegetali (15-25%) ed alla facilità della conservazione, hanno costituito un elemento importante dell'alimentazione umana in particolare nelle campagne e nelle regioni dove l'olivicoltura era ben radicata. I modi di uso e di conservazione sono ben noti soltanto nell'età imperiale, ma non dovevano essere molto dissimili anche per i periodi più antichi almeno nelle forme meno sofisticate. Le olive venivano servite anche nei pranzi più importanti all'inizio ed alla fine. La conservazione più diffusa era quella di tenerle in salamoia, ben coperte di liquido, fino al momento dell'uso quando venivano scolate, snocciolate e tritate insieme a vari aromi e mescolate a miele. Un altro modo di conservazione era quello di scegliere le drupe (olive ben mature) migliori, farle asciugare per un giorno, metterle poi in un fiscolo (diminutivo di fiscus: cesto) nuovo, schiacciarle e lasciarle sotto pressa per una notte. Dopo questo trattamento venivano sminuzzate, condite con sale e aromi e venivano poi conservate in un vaso, ricoperte di olio, fino al momento di usarle. Molto diffuse erano anche le conserve di olive nere che venivano preparate dopo una salagione durata 30-40 giorni. Sono ricordati molti altri tipi di conservazione delle olive, più complicati e perciò stesso meno diffusi.
Ben più complesso invece il ruolo svolto dall'olio. È stato giustamente notato come fino al III secolo a.C. le lucerne siano estremamente carenti e spesso del tutto assenti nei siti scavati. Questa mancanza, più che con motivazioni culturali, va probabilmente spiegata con la forte disponibilità di altri materiali per illuminazione dal costo indubbiamente molto più contenuto dell'olio, come lo stesso focolare, successivamente torce ricavate da schegge di legni resinosi, o fasci di canne o di altri arbusti intrise di sostanze combustibili d'origine minerale o vegetale, o grassi d'originale animale. Sistemi di illuminazione, però, di non buona qualità che provocavano fumo, cattivi odori e, spesso, incendi. Questo spinse alla individuazione di sistemi più "puliti" ed "ecologici", come l'uso delle lucerne alimentate con olio di oliva, diffusissime in Grecia, o le candele, altamente diffuse invece in Etruria, segno probabilmente di due diverse disponibilità di quantità di olio da destinare ad un uso tutto sommato secondario rispetto al principale che restava sempre quello alimentare, non tanto come condimento, ma come consumo diretto delle olive. Nel Lazio ed in Etruria però la situazione si modificò rapidamente tra la seconda metà del II° secolo a.C. e la prima metà del I° con una diffusione massiccia di lucerne ad olio di produzione locale, indizio di una disponibilità sul mercato di forti quantitativi di olio, come conseguenza di una forte espansione delle zone coltivate ad oliveto.
Per quanto riguarda la Sabina, la coltura dell'olivo radicata nell'area almeno fin dal VI secolo a.C. (negli scavi di Cures Sabíni, in contesti risalenti a questo periodo, sono stati trovati noccioli d'oliva) si era man mano sviluppata, tanto che le tecniche colturali adottate sul finire dell'età repubblicana non si discostavano molto da quelle adottate fino al 1950.
Alla coltura dell'olivo fanno diffusi riferimenti Catone, che dettava precise norme sull'organizzazione generale di un oliveto, sulla manodopera occorrente, sulla riproduzione per innesti, per margotte, per talee, sulla potatura, sulla raccolta, sui frantoi, sui torchi, sulle celle olearie, sulla produzione dell'olio verde, od olio di novembre, ritenuto uno dei migliori, sulle norme che regolavano i contratti per la raccolta delle olive, per la molitura, per la vendita del frutto pendente, e Varrone, originario della zona di Rieti, che da un punto di vista climatico non era adatta ad una coltivazione intensiva dell'olivo. Tra le qualità delle olive, citate da Catone, Varrone, Columella, Plinio il Vecchio, Rutilio Palladio e Macrobio, sono da ricordare la Sergia, che i Sabini chiamavano, secondo Plinio, Regia. Questa varietà maturava abbastanza tardi, in febbraio-marzo, resisteva al gelo e dava un'ottima resa in olio.
Il sistema di estrazione dell'olio praticato in età romana non differiva molto da quello utilizzato fino alla metà del secolo XX° d. C..
La frangitura delle olive avveniva o per mezzo del trapetum (frantoio), modello descritto da Catone, che però in Sabina, a quanto sembra, non è mai stato rinvenuto, o con la più semplice mola olearia, formata da una parte fissa, il bacino o sottomola, sulla quale girava la mola, imperniata su di un palo orizzontale che si inseriva in uno verticale alloggiato nel bacino, e azionata da animali. Una volta frante le olive, la pasta ricavata veniva introdotta all'interno dei fiscoli e premuta con il torchio (torcular).
I tipi di torchio erano diversi; i più diffusi erano però i torchi a leva, a loro volta di due tipi: a verricello e a vite. In Sabina gli esemplari ritrovati attestano la particolare diffusione del torchio a vite, con la vite ancorata al suolo, che, se è vero che veniva utilizzato maggiormente per la torchiatura delle vinacce, era anche utilizzato per la premitura della pasta ricavata dalla frangitura delle olive.
Il torchio a vite ad ancoraggio fisso era costituito da due pali verticali (arbores) infissi in due incassi di norma scavati in un unico blocco di pietra locale. Tra i due pali veniva inserito l'albero del torchio (prelum), collegato poi alla vite senza fine, che, insieme ad altri congegni, provocava l'abbassamento dell'orbis, un disco in legno, che premeva sui fiscoli, che erano dei cesti intrecciati con giunchi od altre fibre vegetali, nei quali veniva inserita volta a volta la quantità di pasta da spremere. La superficie di premitura era costituita dall'ara, che poteva essere sia in pietra locale che in mattoncini disposti a spina di pesce (opus spicatum), sul bordo della quale vi era normalmente un solo canale che serviva a convogliare per mezzo di un becco
l'olio misto all'acqua di vegetazione in vari contenitori, dove si operava la separazione dei due liquidi per successive decantazioni. La spremitura della pasta veniva ripetuta tre volte. L'olio così prodotto veniva poi conservato nella cella olearia dove veniva suddiviso per qualità: la prima definita oleí flos, la seconda oleum sequens e la terza oleum cíbarium, e cambiato più volte per liberarlo della morchia. La differenza di qualità è ben marcata nell'editto di Diocleziano che agli inizi del IV secolo d.C. calmierava i prezzi dei generi di prima necessità: l'olio di prima qualità costava 40 denari il sestario sesta parte del cogno-(circa lt. 0,547), 24 quello di seconda e 12 soltanto quello di terza.
A Roma in età imperiale è stato stimato un consumo di circa 321.000 anfore di olio l'anno, equivalenti grosso modo a 22.480 tonnellate, valutazione compiuta in base al ritrovamento sul monte Testaccio, corrispondenti ad un consumo annuo pro capite di circa 22,5 chilogrammi. Una quantità abbastanza elevata che si spiega anche con il fatto che l'olio non serviva soltanto per l'alimentazione, ma anche per l'illuminazione, le pratiche igieniche, la medicina, la cosmesi, la meccanica. Altre valutazioni conducono a cifre grosso modo simili.
Non sono note per l'età romana notizie sulla produzione e sulle rese dell'olio in Sabina, peraltro soggette a molte variabili ed a forti oscillazioni e quindi difficilmente quantificabili. In via di approssimazione possono essere presi come modello i dati del secolo XX°, proprio in considerazione della forte cristallizzazione, nel lungo periodo, delle tecniche colturali ed estrattive, innovate in Sabina soltanto sullo scorcio del 1800. Il ciclo produttivo era triennale: un anno nullo, uno medio, uno di carica, con una produzione media nel triennio di un boccale l'anno per albero, poco più di 2 litri, e con un consumo pro capite stimato di poco superiore a 4 boccali, che corrispondono a poco più di 8 litri d'olio.
L'olivicoltura in Sabina acquistò notevole importanza a partire dal I° secolo d.C., come attestava Columella, ben noto scrittore di cose agricole, precisando che l'olivo non amava né i luoghi depressi né quelli aspri, ma i dolci declivi che potevano essere osservati in Sabina o nella Betica, provincia della Spagna meridionale, una delle zone maggiormente note per la forte produzione che si era affermata precocemente a Roma, ponendo quindi sullo stesso piano i due paesaggi dell'olivo. La Sabina era in età romana la regione-limite verso settentrione per la coltivazione dell'olivo. Plinio il Giovane ricordava infatti in una delle sue lettere, scritte a cavaliere tra I e II secolo d.C., come nella sua villa in Tuscis che era situata alle falde degli Appennini, nell'attuale Umbria nei pressi di Città di Castello in località Colle Plinio, data la rigidezza del clima era sconsigliato piantare olivi.
L'approvvigionamento dell'olio a Roma era assicurato dal mercato libero, dai possedimenti fiscali o da canoni impositivi. Le importazioni maggiori venivano dalla Betica, regione del sud della Spagna, che iniziò ad inviare olio a Roma in età augustea. Una quantità che crebbe progressivamente fino a cessare poi bruscamente tra il III e IV secolo d.C.. Altrettanto rilevante fu il contributo dato dagli oliveti nordafricani, in particolare di quelli situati nell'attuale Tunisia, che divenne a partire dal III secolo d.C,. la maggiore esportatrice di olio nel Mediterraneo, soppiantando il ruolo svolto dalla Betica e dalla Tripolitania. Inizialmente il trasporto era gestito da negotíatores oleari privati, ma con Settimo Severo il trasporto venne assunto direttamente dall'imperatore e dai suoi figli.
Tra le qualità dell'olio sabino, quella terapeutica è attestata fin dal I° secolo d.C. da Scribonio Largo. Un grande estimatore dell'olio sabino fu nel II° secolo d.C. Galeno, uno dei più famosi medici dell'antichità e medico alla corte di Marco Aurelio, che lo considerava il migliore degli oli allora conosciuti, consigliandolo come base essenziale di molti preparati farmaceutici. Una fama che si mantenne a lungo inalterata, tanto che nel VI secolo d.C. Alessandro di Tralles nel suo trattato di terapeutica, che ebbe un notevole influsso sull'insegnamento medico medievale, ricordava ancora le ricette di Galeno che avevano come base l'olio d'oliva della Sabina.
La sempre maggiore discontinuità delle importazioni transmarine dovette causare penuria di olio sul mercato romano, dato che nel basso impero sono ricordate numerose distribuzioni gratuite di lardo alla plebe ed una sempre più diffusa utilizzazione del grasso animale per alimentare le lampade. Questo fatto dovette stimolare indubbiamente la produzione delle aree più prossime a Roma, anche se la ripresa in questo caso era ben più lenta per le caratteristiche del ciclo produttivo della pianta. Va anche considerato però che il paesaggio dell'olivo può resistere più degli altri al degrado per le caratteristiche di longevità della pianta, che può vegetare e produrre per diversi secoli. Si veda ad esempio proprio nell'area curense il famoso olivo di Canneto, intorno al quale sono fiorite molte leggende, ma che indubbiamente non può risalire fino alletà romana.
Una coltivazione, pertanto, che non era certamente venuta meno, ma si era probabilmente specializzata, dato che nel IV secolo d.C. alcune qualità godevano di una rinomanza tale da valicare i confini peninsulari come l'oliva Pícena ricordata da Ausonio, che probabilmente si riferiva alla regione e quindi anche alla Sabina.
Un fattore non secondario del sostegno alla produzione dell'olivo fu l'affermarsi del cristianesimo, una religione sviluppatasi nel Mediterraneo e che dalle colture tipiche del Mediterraneo, vite e olivo, traeva allegorie profonde per diffondere i propri messaggi, i propri misteri. La vite e l'olivo, come i loro prodotti, olio e vino, con il propagarsi della religione cristiana, vennero ad assumere nuovi valori simbolici, liturgici, sacrali e culturali. Un altro aspetto che non va sottovalutato è il consumo non marginale di olio che dallo scorcio del IV secolo veniva fatto per illuminare gli interni delle basiliche paleocristiane, ben noto in particolare a Roma, o per altre ragioni sacre. I lumi che venivano utilizzati erano di tre diverse categorie: le coronae, lampade ad olio, in genere d'argento, più raramente d'oro, con applicazioni in forma di delfini fissate all'orlo che servivano a sorreggere un anello nel quale erano infilate le fiale di vetro contenenti l'olio. I canthara cereostata, talvolta d'argento, più spesso d'ottone o di bronzo, che sorreggevano ceri. I fara canthara, raramente di argento o di ottone, quasi sempre di bronzo, anch'essi lumi pendenti, probabilmente ad olio, ma di fattura meno complessa. Nella basilica costantiniana di S. Pietro ardevano, nel IV secolo, 7 coronae con 170 delfini e più di 110 fara d'argento. |
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